Trekking al Cerro Kennedy, Colombia
Stavamo a Minca da un mesetto quando con Aurora decidemmo di intraprendere l’Ascesa al Monte Kennedy. Destinate, come sempre, a ritrovarci nel bel mezzo di un’avventura.
Dai 650 metri di Minca ai 3100 della vetta, entrambe parti della Sierra Nevada di Santa Marta.
C’è un percorso circolare che da Minca arriva al Campano che permette di variare il ritorno dall’andata. Mentre dal Campano alla cima è un’unica via. Noi scegliemmo di partire dalla via orientale con alcuni amici che si dirigevano all’Oido del Mundo, ottimo posto per un bagno nel fiume lontano dal turismo di massa. Gli zaini carichi di cibo, tanti sogni, nessuna cartina, tempo stimato: 3 giorni.
Ci fermammo con i ragazzi a fare il bagno e tra la musica e gli schizzi nell’acqua si avvicinò il tramonto e dormimmo insieme cullate dalla danza del fuoco e protette dalla notte stellata.
Cosa c’è di più bello che svegliarsi e buttarsi nelle acque fresche, lavarsi sotto la doccia della cascata? Così rigenerate partimmo con alle spalle una sola ora e mezzo di cammino.. la salita era ancora lunga!
Sorpassammo la Cascata di Marinka, nota meta turistica che richiede degli spiccioli per l’ingresso.
Qualche piccolo negozio è stata nostra tappa per rifornirci di energie con snack poco salutari come il Dulce de Leche, una specie di caramello che deriva dalla cottura del latte con lo zucchero: la Nutella dell’America Latina.
Giungemmo al Los Pinos, una terrazza panoramica caratterizzata da due altissimi pini totalmente fuori luogo nella foresta tropicale. Ed una sola casa con un padrone che non vede l’ora di scambiare due chiacchiere ed un enorme cane peloso più simile ad un orso, che riposa all’ombra del portico.
Udimmo la tipica musica popolare colombiana prima di scorgere il villaggio di Campano posto “sull’incrocio”: è totalmente assurdo: ci saranno una ventina di case, nonché un bar con un biliardo! Galline che scorrazzano ovunque, la foresta umidissima e gli sguardi degli uomini seduti al bar.
Col desiderio del caffè ed il disagio dell’attenzione su di noi continuammo il cammino verso l’alto e incrociammo una signora con un paio di bambini che faceva i piatti nella cucina “a vista”.
“Buongiorno, dove potremmo prendere un caffè?” Chiedemmo. La signora ci fece accomodare sulla panca di legno e lei stessa ci fece la merenda, chiedendoci curiosa da dove venissimo e dove stessimo andando.
Passammo per Bellavista (davvero bella, la vista!) e numerose tenute immerse nel verde, molte delle quali con grandi proprietà terriere e coltivazione di caffè, cacao e banane. Molto spesso offrono servizio di hotel: villeggiare in quei luoghi permette di rilassarsi, osservare le numerose specie di uccelli, godere della natura incontaminata.
Ma la salita era lunga e la notte che scende brusca vicino all’Equatore ci colse nel bel mezzo della foresta, buia più che mai. Appena trovammo uno spiazzo lungo la strada sterrata piantammo la tenda e ci cucinammo da mangiare con un piccolo fuoco. Essenziale un rivolo d’acqua per bere e per lavarci dopo una bella sudata!
Per un tacito accordo nessuna parlò delle proprie paure e con il cuore nervoso ci accostammo nella speranza di dormire. Non ci fu il tempo che passò un’automobile.
Si fermò e suonò il clacson.
Aurora ed io in preda al panico rimanemmo immobili e silenziose.
La macchina proseguì, ma poco dopo tornò indietro e ci puntò i fari contro la tenda.
E due portiere che si aprono e sbattono, qualcuno che scende.
Panico e paura. Cosa facciamo?
“Siamo la guardia forestale, qui non si può campeggiare”.
Oh, mio dio, un sospiro di sollievo. Apriamo la tenda, usciamo.
Avrei voluto abbracciarli.
Gli spieghiamo la situazione, e con la loro gentilezza ci lasciano restare…
“Dormite tranquille, domattina presto levate la tenda, non lasciate rifiuti, non accendete fuochi”.
Cademmo in un sonno profondo.
Partimmo cariche all’indomani e in poco meno di due ore arrivammo ad uno spiazzo meraviglioso che sarebbe stato perfetto per il nostro campeggio notturno! Due case da villeggiatura sottostavano la terrazza panoramica, mentre una riserva di uccelli si preannunciava con un cancello chiuso. Da lì il Cerro Kennedy era ormai vicino.. Se non che..
Arrivò un gruppo di macchine cosiddette “Da sentiero” e una dozzina di persone con loro. Si misero a scattare fotografie e fra qualche chiacchiera si offrirono di “dare uno strappo” a me ed Aurora. Una iniziale titubanza si trasformò in entusiasmo e in quattro quattr’otto arrivammo alla cima con questo mezzo 4×4 che scalava pareti! Il gruppo era simpaticissimo e ci offrì un ristoro di salsicce formaggi e merendine varie che Aurora ed io accettammo senza complimenti!
Purtroppo a causa del tempo leggermente nuvoloso non potemmo vedere le cime innevate della Sierra, ma godemmo senz’altro di un’ottima compagnia e una fatica dimezzata non da poco!
Ci riportarono più tardi dove ci eravamo incontrati e noi due decidemmo di passare la notte lì, nella speranza di vedere, all’alba, le cime innevate. Scendemmo alle due case a vista dalla terrazza panoramica. Entrambe sembravano abitate ma non in quel momento.
Passammo un’ora a cercare le chiavi perché Aurora mi convinse che chiunque nasconde le chiavi da qualche parte. Non le trovammo.
Trovammo l’acqua però ed un bellissimo camino dove fare il fuoco e cucinare.
Sul più bello di una partita a dadi arrivò uno svalvolato, un tipo come noi.. in short e maglietta con niente più che una bottiglia d’acqua al calar del sole.
Era anche lui all’avventura. Non potemmo che offrigli la nostra ospitalità, che rifiutò con garbo decidendo di scendere a causa del freddo a cui non era preparato.
Fu così che si concluse, la nostra terza giornata.
La quarta fu breve e indolore. Ci fu solo un inghippo che ci fece rizzare i peli sulle braccia quando da lontano udimmo una sorta di boato grugnito che proveniva dal basso della foresta.
Che sarà? Maiali? Un po’ strano da queste parti. Cinghiali? Cinghiali selvatici, cazzo!
E più scendevamo e più si faceva vicino quando nel mezzo della selva ci ritrovammo circondate! Sopra, davanti, di lato… Non eravamo più tanto sicure che saremmo giunte a destinazione, tanto che girammo un video di testimonianza.
Con la pietra in una mano ed il coltello nell’altra ci lasciammo alle spalle quel rumore e in breve trovammo un passaggio che ci riportò a Minca distese sui sacchi di chicchi di caffè nel cassone di un camioncino.
Più tardi scoprimmo che quel grido pauroso altro non era che il verso delle simpaticissime scimmiette chiamate Micos.