Vivere in Comunità-Dopo il Cammino di Santiago
Ho lasciato Santiago e le lacrime di emozione alle mie spalle. In tre giorni giungo a Finisterre dove alloggio alla World Family, un gruppo di ragazzi che vive in una casa all’entrata della cittadina.
Mi siedo al faro, davanti l’oceano: la Fine del Mondo, quando ancora non si sapeva dell’esistenza delle Americhe. E penso alcune cose.
Non voglio essere un animale in questa gabbia chiamata Sistema.
È tutto così relativo, così volatile. Io non vedo e non sento come vedi e come senti tu. Quello che io ti dico non lo capisci come lo intendo io. Non possiamo essere riducibili ad ingranaggi di una macchina.
Dobbiamo smettere di sentirci obbligati a… SIAMO LIBERI! Se vogliamo.
Lasciar scivolare le cose. Take it easy.
A pochi chilometri da Muxia arrivo al Monastero di San Martino de Ozòn. Un luogo abitato da una comunità di 12 persone autosufficiente. Hanno un orto bellissimo, i polli, le anatre, le pecore, un mulo. Hanno un laboratorio di falegnameria e un fabbro. Hanno una stanza adibita all’accoglienza dei pellegrini del Cammino di Santiago.
I pellegrini possono rimanere in comunità più giorni, con un apporto monetario volontario e la possibilità di contribuire al funzionamento della casa.
Accolgono me e le mie insicurezze a braccia aperte.
Conosco subito il monastero, i campi, gli animali e i componenti della famiglia.
A 20 minuti a piedi tra le colline spunta un’ampissima spiaggia desolata. Di notte si sentono le onde infrangersi sul bagnasciuga.
Passano alcuni giorni e ho modo di conoscere i ragazzi. Ci troviamo bene. Durante la mia prima riunione comunitaria esprimo il desiderio di restare che viene approvato con piacere. Mi assegnano un letto al di fuori della stanza dei pellegrini dove dormo con due francesi che non russano mai.
Tutte le mattine scendo al campo con il mastro contadino che diventerà per me un’importantissima figura di riferimento: l’Uruguayo. Giorno dopo giorno mi insegna a lavorare la terra con pazienza, passione ed amore. Coglie le fragole nella serra e me le regala con gesti delicati. Accarezza il basilico passeggiando lungo i filari.
Mi invita al Mate, al risveglio mattutino. Parla con me dei libri che legge. Mi spiega le sue teorie comuniste.
Passano alcune settimane ed io mi sento a casa.
Una sera attorno ad un grande fuoco cuciniamo castagne e facciamo musica. L’Uruguayo non è il solo ad avere una bellissima voce, c’è chi suona i bongo, l’ukulele, la chitarra.
La notte è stellata in questo caldo settembre della Galizia… ed io realizzo LA differenza: nessuno domani DEVE svegliarsi per andare a lavorare. Ma tutti si sveglieranno chi prima e chi poi. Chi andrà al campo, chi andrà a fare la spesa, chi taglierà la legna per l’inverno che si avvicina, chi raccoglierà le mele e farà una torta, il fabbro e il falegname inarrestabili nei laboratori, chi invece non avrà voglia, chi andrà in spiaggia a passeggiare, chi come me preparerà il pranzo.
Passano i mesi.
Quando cucino io i commensali sanno cosa aspettarsi: una zuppa di verdure e legumi di colore giallo per il curry e la curcuma ed un riso bruciacchiato sul fondo.
Per il richiamo del pasto si suona il corno: io amo suonare fuori dalla finestra verso il campo di sotto ed i laboratori e poi di nuovo fuori dalla porta verso l’orto e la stanza dei pellegrini e grido: “A comeeeeer”. Poi ci disponiamo in cerchio e, per mano, cantiamo una canzone. Una canzone che ricorda ogni giorno la fortuna di mangiare un pasto caldo seduti in compagnia ad un tavolo.
Ho cominciato a occuparmi dei formaggi: andiamo a prendere 30 litri di latte e faccio, con l’aiuto di una bellissima ragazza spagnola, 10-12 forme. Poi riposano nell’Horreo, la tipica costruzione del nord della Spagna per conservare il raccolto. Quasi ogni giorno controllo come stanno: li giro e rigiro e li ungo di olio ed aceto. È il mio compito, ed io sono la loro custode.
L’inverno si fa presto sentire: è freddo ed umido e la pioggia ci barrica in casa togliendoci lavoro. Rubo maglioni dall’armadio comune e dormo sotto chili di coperte.
Meno pellegrini passano a visitarci, meno raccolto offre l’inverno.
Gli spazi, per me, si fanno stretti.
Incombenze mi chiamano di ritorno a Padova.
Decido di tornare verso casa, questa volta in aereo e lascio la famiglia con le lacrime agli occhi.
La mia ultima sera è una grande emozione. Compriamo il vino, concesso solo in occasioni speciali. Ceniamo cordon bleu fatti in casa e beviamo. Mi regalano un brindisi con un ringraziamento ed io non posso che ricambiare allo stesso modo e più.
Il mio maestro uruguaio ha un aria triste, ma mi sorride.
Continuiamo per ore le chiacchiere e il vino sotto il porticato mentre piove leggero. Fumiamo tabacco e ridiamo. Più che mai mi sento realizzata: accolta a braccia aperte da queste dodici, pazze, persone. Ed abbracciata da un arrivederci sincero e carico di speranza.
Grazie.
È confortevole sapere che esistono nel mondo, persone e comunità come questa.